L’ansia è un’emozione utile all’adattamento, una reazione emotiva ad un pericolo percepito: ti avvisa di qualcosa e ti aiuta a individuare minacce future e a difenderti da esse, progettando scenari nei quali dovrai essere in grado di fronteggiare la situazione.
La persona ansiosa è sempre in attesa che possa accadere qualcosa di negativo, si preoccupa per ciò che potrebbe succedere, manifestando un livello di tensione inadeguato per ciò che viene attribuito normalmente ai fatti “preoccupanti”: più la persona tenta di sopprimerle, più queste idee tornano e ritornano nella sua mente senza che essa sia in grado di eliminarle.
Non esiste un evento particolarmente stressante da poter essere indicato come causa principale dell’ansia: sono i pensieri che si fanno su ciò che sta accadendo o che accadrà a generare ansia, e non gli eventi in sé.
Di conseguenza, non tutti sperimentano ansia a fronte dello stesso evento e questo dipende da più fattori come, ad esempio, il temperamento di ciascuno, le proprie esperienze di vita e quindi le strategie mentali e comportamentali che la persona mette in atto per far fronte ad una determinata situazione.
Ma come si manifesta l’ansia?
I sintomi più comuni sono: tachicardia, problemi a deglutire o sensazione di avere qualcosa in gola, senso di oppressione al petto, sudorazione eccessiva, nausea o diarrea, sensazione di instabilità, vertigini, disorientamento, ecc.
Quando uno stimolo viene percepito come minaccioso, crea uno stato di forte preoccupazione che la persona interpreta in modo catastrofico; questo porta un ulteriore incremento della preoccupazione, si intensificano le sensazioni somatiche, e così via..
…e come si può gestire l’ansia?
Esistono diversi trattamenti cognitivi e comportamentali per aiutare a gestire l’ansia: innanzitutto, quando ci si trova di fronte ad una “situazione problema”, sarebbe importante chiedersi che tipo di emozione si sta provando in quel preciso istante; immediatamente dopo, sarebbe utile provare a identificare quali sono i pensieri relativi a quell’emozione (pensieri disfunzionali): per gestire l’ansia è infatti molto importante stare attenti ad alcune “trappole cognitive” (“Cosa accadrà se non riuscirò? Vorrà dire che sono un incapace” oppure “ Perderò tutto se non ci riuscirò” o ancora “ Ce la farò di sicuro, sono troppo in gamba”). Queste distorsioni è necessario metterle in dubbio e sostituirle con pensieri alternativi, più utili al raggiungimento dei propri obiettivi, del tipo “ Ci provo e provo anche a fare del mio meglio!”.
Dal punto di vista comportamentale, invece, la prima cosa da fare potrebbe essere quella di osservare la propria respirazione: se il respiro è troppo veloce, il rischio é quello di andare in iperventilazione. È importante allora respirare meglio: la “respirazione addominale” può essere efficace. Basta rallentare il respiro per 15 secondi minimo, facendo attenzione a evitare respiri veloci o colpi di tosse per ristabilire il giusto equilibrio di anidride carbonica che si perde quando si è in iperventilazione. Grazie a questo modo di respirare ristabiliremo anche il giusto equilibrio ossigeno-anidride carbonica apportato al cervello.
Un altro modo è praticare la Mindfulness, una tecnica psicologica di meditazione sviluppata a partire dai precetti del Buddhismo, che serve a favorire l’attenzione in maniera non giudicante verso il momento presente, consapevoli del fatto che il passato non esiste più, il futuro è solo una fantasia e l’unica realtà disponibile è la finestra percettiva che abbiamo nel momento presente, unico istante nel quale si svolge la nostra esistenza.
Quelle finora citate sono tecniche di “autoaiuto” che si possono mettere in atto nell’immediato!
Tuttavia sarebbe utile, per una risoluzione a lungo termine e più efficace, modificare il proprio modo di approcciarsi alla vita nel momento in cui questo diventa disfunzionale al proprio benessere: per far ciò sarebbe fondamentale l’aiuto di uno psicoterapeuta con cui intraprendere un percorso nel quale indagare l’origine della propria ansia, ritrovare la fiducia in se stessi ed essere felici.
“Chi dice donna dice danno!”, ”La donna è come l’onda, se non ti sostiene ti affonda” o ancora “ Donna buona, bella e cara è una merce molto rara” …questi sono solo alcuni dei proverbi riguardanti la donna, una figura pericolosa, iraconda, che ostacola il normale succedersi degli eventi. Eppure nella letteratura ritroviamo una concezione della donna molto più spirituale, l’angelo del focolare: è stata decantata da Dante, Petrarca, Boccaccio che hanno sviluppato una concezione di donna come colei capace di elevare l’uomo a Dio.
Tuttavia, nonostante le tante conquiste, i tanti cambiamenti, fino a qualche anno fa era molto presente lo stereotipo di donna accudente, protettiva che si contrapponeva all’immagine di uomo forte, privo di emozioni.
Lo stereotipo rappresentava quindi una trappola che difficilmente permetteva alle donne di reinventarsi.
Oggi la donna si è liberata dal ruolo tradizionale e appare indipendente, emancipata e non si occupa solo della famiglia: studia, fa un lavoro che le permette di realizzarsi, ha gli stessi diritti degli uomini. Ci sono donne manager, che fanno carriera in politica, nel mondo della scienza, e ci sono anche donne che usano la bellezza come potere, quasi non potesse esistere un cervello pensante all’interno di una precisa fisicità. L’immagine della donna è quindi attualmente bipolare: da un lato una figura intelligente, determinata, forte, dall’altra la seduttrice, colei che tutto può se si attiene a determinati canoni estetici.
L’8 marzo ricorre la festa della donna: le associazioni di donne organizzano manifestazioni e convegni sull’emancipazione femminile, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi delle donne, sulle violenze che ancora purtroppo subiscono. Eh già, perché ancora oggi le donne sono vittime di omicidi, stupri, mutilazioni e crudeltà di ogni genere.
Quindi basta con il regalare mimose per la festa della donna …non è l’unico modo per celebrarla! Fermiamoci piuttosto a riflettere su chi è la donna oggi: cosa vuol dire essere donna oggi?
Vuol dire aver studiato a lungo, aver ottenuto una laurea e con grande fatica e umiltà aver fatto il possibile per realizzare una carriera lavorativa brillante; al tempo stesso vuol dire essere mamma e dividersi tra famiglia e lavoro, nonostante numerosi sforzi, le giornate che non bastano mai, gli scarsi aiuti sociali; vuol dire fare la casalinga e occuparsi con dedizione di casa, marito, figli; e purtroppo vuol dire a volte essere maltrattata, soffrire perché vittima di uomini-mostri.
Probabilmente un buon modo di festeggiare la donna è riconoscerne l’essere speciale nella quotidianità… come meriterebbe!!!
Se ci fermiamo a pensare che ognuno di noi in media trascorre 8 ore al giorno a lavorare, possiamo immaginare quanto possa essere faticoso dover gestire sensazioni spiacevoli legate al lavoro che facciamo. Infatti, che tu sia un lavoratore subordinato o un lavoratore autonomo, nulla ti esime dall’esperire frustrazione, scoraggiamento, ansia, rabbia, angoscia causate dalle continue pressioni lavorative o dalle difficoltà nel rapporto con i colleghi o con il proprio capo. A questa condizione è stato dato il nome di Stress da lavoro correlato: nello specifico, questo viene definito dall’European Agency for Safety and Healt at Work come la percezione di uno squilibrio avvertito dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste. Questo malumore può manifestarsi a livello fisico con disturbi del sonno, disturbi dell’alimentazione, disturbi sessuali, ecc oppure a livello psicologico con attenzione/ concentrazione ridotta, irritabilità, ansia, crisi depressive, autocritica esagerata, pessimismo e cattivo umore. Tutto ciò si esprime a livello comportamentale con tendenza all’isolamento, impazienza, irrequietezza, indecisione, impulsività e assenteismo o malattia.
Cosa possiamo fare nel momento in cui ci rendiamo conto che il malumore circoscritto al lavoro che svolgiamo si ripercuote inevitabilmente nelle altre sfere di vita, nel rapporto con il partner, i figli, gli amici, ecc, facendoci apparire scontrosi o al contrario solitari, evitanti?
Potremmo applicare una lente d’ingrandimento così da mettere a fuoco il problema e analizzare come ogni aspetto incide su di noi a livello emotivo. Nel momento in cui siamo più consapevoli possiamo mettere in atto determinate strategie come, ad esempio, cercare di affrontare direttamente l’origine del disagio, parlando e confrontandoci, se si tratta di un superiore o di un collega. Se invece ci rendiamo conto di “essere noi il problema” potremmo cercare di migliorare le nostre risposte a ciò che viviamo come minaccioso a livello lavorativo. Certo, con l’aiuto di un professionista come uno psicologo o uno psicoterapeuta, sarebbe più facilitante il percorso di “risanamento delle strategie di coping” che diventerebbero adattive, migliorando i nostri pensieri e le nostre emozioni…insomma la nostra parte di vita a lavoro e non solo. La migliore soluzione è quella di mettersi in gioco e avere la volontà di modificare una parte di noi, a prescindere dalle risposte che potremmo ricevere dagli altri!!! Se ci sono situazioni che viviamo con difficoltà almeno proviamo a cambiarle…e se da soli non ci riusciamo, qualcuno disposto a camminare con noi verso l’uscita dal labirinto esiste.
Prendi 2.000 persone obese o anche solo in sovrappeso, età pari o superiore a 50 anni, e chiedi loro se negli anni successivi hanno intenzione di perdere peso, metterne o mantenersi stabili, organizzando un follow-up a 4 anni.Prevedi la compilazione di test clinici finalizzati a rilevare lo stato dell’umore, così da capire se il dimagrimento ha per caso avuto effetti significativi sugli stati emotivi, poi tiri le somme.
Lo hanno fatto in Gran Bretagna, presso la University College of London, pubblicando i risultati sulla rivista PLOS ONE. Ne vengo a conoscenza tramite un articoletto apparso recentemente nel web che attira la mia attenzione per il titolo a tratti sensazionalistico e nel quale si racconta che la perdita di peso sembrerebbe produrre l’effetto di una cambiale da saldare a suon di malumori.
Penso ai pazienti del Servizio di Psicologia di dNa Milano. Non me ne viene in mente mezzo che, a fronte di una perdita di peso, si strappi i capelli dalla disperazione! Vado dunque a cercare l’articolo originale. I curiosi in grado di masticare un po’ di inglese possono trovarlo qui.
Ebbene, come tutte le ricerche longitudinali, anche in questa il campione in esame non ha mancato di avere qualche difettuccio: chi aveva dichiarato di voler fare la dieta e poi s’è perso per strada non riuscendo a perdere un grammo, chi viceversa, chi s’è dimenticato negli anni di far parte di un panel di ricerca, eccetera. Non solo: ad aver perso peso sembrerebbe essere stato solo il 14% del campione totale, dunque 280 persone. Di queste, il 78% risulterebbe aver patito un peggioramento dell’umore (= 218): non proprio una tribù numerosa.
E ancora: quella connessione fra peggioramento dell’umore e perdita di peso. Gli autori stessi mi sembrano più possibilisti che definitivi, non mancando di chiedersi cosa nasca prima, se l’uovo (il peggioramento dell’umore) o la gallina (la perdita di peso), e mostrando una sanissima onestà intellettuale nell’ipotizzare la possibilità che sull’umore abbiano agìto eventi di vita stressogeni che nulla hanno avuto a che vedere con il regime alimentare seguito dalle persone.
Ma non finisce qui. Nell’articolo trovo un’insinuazione interessante (che tale rimane): sarà mica che il peggioramento dell’umore – osano i ricercatori – cominci a comparire solo dopo la fase iniziale di perdita di peso, in cui notoriamente si è sostenuti e incoraggiati e si comincia a perdere qualche chiletto? Quando cioè si è ormai in corsa e il sostegno comincia a vacillare?
Mi viene in mente che quando si parla di “dieta” – non solo negli articoli più o meno seri che possono trovarsi in giro ma anche e soprattutto negli studi di psicologia -, il “non ce la faccio se nessuno m’aiuta” è più diffuso di quanto si creda, e svela quanto ci sia di “relazionale” nel proprio rapporto col cibo. E per “relazionale” non intendo che, di fatto, fra sé e il cibo c’è una relazione. No: per “relazionale” intendo che il nostro rapporto col cibo c’entra, e parecchio, col rapporto che abbiamo con noi stessi, con gli altri, con l’esistenza che viviamo, nonché con tutti quei significati che a tutto questo attribuiamo e che hanno, appunto e di nuovo, natura relazionale. Mica bazzecole.
Per questo affermazioni come “perdere peso rende tristi” fanno saltare sulla sedia e sanno di poco.
Psicologo Psicoterapeuta Milano. Responsabile del Servizio di Psicologia dNa Milano.
Esercita la libera professione di Psicologa e Psicoterapeuta a Milano e a Segrate, dove attua forme di intervento individuale e di coppia. Si occupa di problematiche relazionali, alimentari e di forme di disagio di natura depressiva, ansiogena, ossessiva. Si interessa nello specifico degli effetti dovuti a traumi e ad esperienze di maltrattamento, trascuratezza, abuso fisico e psichico subite nelle fasi dello sviluppo.
Dopo la prima laurea in Relazioni Pubbliche, consumi e pubblicità, si è occupata di ricerche di mercato, formazione, consulenza e management aziendale. Laureata in Psicologia nel 2007 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è specializzata in Psicoterapia Cognitivista Relazionale presso la Scuola di Specializzazione di Como, perfezionando poi le competenze sugli effetti delle traumatizzazioni semplici e complesse con il I e II livello di formazione in Psicoterapia Sensomotoria (Sensorimotor Psychotherapy Institute, USA).
E’ iscritta all’albo Professionale degli Psicologi e degli Psicoterapeuti della Lombardia.
Ha maturato notevole esperienza presso il Policlinico di San Donato Milanese, reparto di Cardiochirurgia Congenita,Acquisita e Terapia intensiva.
Ha maturato esperienza presso l’Ospedale S. Gerardo di Monza (Ambulatorio Vademecum “Ansia e depressione” e Casa Circondariale).
Da sempre sensibile al tema della diffusione della cultura psicologica presso i “non addetti ai lavori”, nel 2010 e 2011 è stata Responsabile Scientifica dell’evento Aperitologo – l’aperitivo con lo psicologo dentro.
Evento quest’ultimo ideato e realizzato dall’ Associazione Unconventionall Gens, ottenendo il patrocinio dell’Ordine Psicologi Lombardia.
E’ l’ideatore di naming, concept e modello di intervento clinico e socialeCaring Angelse del blog “Di luna bellissima – Fotografie di stelle“.
Ha collaborato con l’Università IULM per la cattedra diTecniche della Comunicazione Pubblicitaria II,Psicologia dei Processi Cognitivi,Psicologia Generale,Psicologia della Comunicazione e Psicologia dell’Arte.
Nel 2010 ha collaborato con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano per ilLaboratorio di Tecniche di osservazione della realtà educativa.
E’ socio fondatore dell’associazioneDentro un quadro e attualmente Presidente del Consiglio Direttivo.
E’ socio fondatore dell’Associazione di Promozione Sociale “Amici della Casa dei Diritti”e redattore del blog “Gli intrusi” per “Salute e libertà di scelta”.
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