chiamato dagli inglesi “low back pain” (dolore alla parte bassa della colonna) è una problematica molto diffusa nella popolazione. Alcuni studi statistici rivelano che circa l’80% della popolazione totale sperimenterà il dolore alla schiena cronico a un certo punto della propria vita.
A soffrirne maggiormente sono le persone con un’età compresa tra i 30 e i 50 anni, ma non mancano casi di ragazzi con meno di 20 anni. Il dolore in genere è a sbarra, nella zona lombare e in alcuni casi può irradiarsi ad un arto inferiore, dando la classica lombo-sciatalgia, se la parte colpita è la porzione posteriore dell’arto inferiore, o la lombo-cruralgia, se il dolore è irradiato sulla porzione anteriore di coscia e gamba.
Questa porzione di colonna è così colpita da fenomeni infiammatori e di sovraccarico perché tale curva è molto adattativa e, essendo una lordosi, è sottoposta a maggior movimento, rispetto per esempio al tratto dorsale (curva cifotica con un range di movimento ridotto).
Il suo compito è quello di sostenere ciò che sta sopra (torace, cervicale e cranio) e intervenire in tutti i movimenti del bacino (che gli sta sotto). È formata da 5 vertebre, tra le quali troviamo i dischi intervertebrali, dei veri e propri cuscinetti che permettono di ridurre l’attrito tra le varie vertebre e servono anche da ammortizzatori dell’energia meccanica che arriva sulla colonna.
Ciascun disco intervertebrale è formato da un anello fibroso esterno che circonda un nucleo polposo (formato per la quasi totalità da acqua).
La porzione fibrosa, sottoposta a continue ed inevitabili sollecitazioni meccaniche, tenderà con il tempo a sfibrarsi creando delle fessurazioni, all’interno delle quali passerà il liquido del nucleo polposo. Questo processo porterà alla disidratazione del disco e alla formazione di protrusioni discali.
Tali protrusioni possono sfociare in vere e proprie ernie discali (il liquido del nucleo polposo fuoriesce completamente dalla parte fibrosa e va a comprimere le strutture esterne al disco), che rappresentano quadri clinici molto dolorosi e resistenti ai comuni farmaci anti-infiammatori.
Le vertebre sono collegate tra di loro da un apparato muscolo-legamentoso, indispensabile per consentire tutti i movimenti della colonna. Esistono dei muscoli molto importanti a questo livello, che se contratti, possono essere responsabili del dolore alla schiena.
Ileo-psoas
Il muscolo Ileo-psoas
E’ il primo tra tutti, un muscolo spesso e allungato, costituito da due ventri muscolari: il grande psoas (che origina dalle prime quattro vertebre lombari e dai dischi intervertebrali interposti) e il muscolo iliaco (che origina dalla fossa iliaca e dall’ala del sacro); tali ventri si uniscono distalmente per inserirsi al piccolo trocantere del femore.
Il muscolo ileo-psoas è un muscolo posturale statico e dinamico, perchè sempre in tensione quando stiamo in piedi e quando camminiamo.
Tale muscolo ha importanti relazioni con gli organi sottodiaframmatici (è infatti definito un muscolo viscerale): il muscolo grande psoas trae rapporti anatomici con rene, ureteri, vasi renali, colon ascendente (a destra) e discendente (a sinistra). Il muscolo iliaco è in rapporto con il cieco e appendice a destra e colon discendente a sinistra.
Un sovraccarico di questi organi intossica e irrigidisce il muscolo ileo-psoas, causando mal di schiena.
Piriforme
Il muscolo piriforme
Altro muscolo importante nelle lombalgie è il muscolo piriforme: è un piccolo muscolo di forma triangolare, situato in profondità nella natica, dietro al grande gluteo. Origina dalla faccia pelvica dell’osso sacro, nella regione posta a lato del secondo, terzo e quarto foro sacrale anteriore, e dal margine della grande incisura ischiatica.
I fasci muscolari, dopo essere usciti dalla pelvi attraverso il grande foro ischiatico, si inseriscono all’estremità superiore della superficie interna del grande trocantere del femore.
La caratteristica di questo muscolo è che ha strettissimi rapporti con il nervo sciatico. Una sua contrattura può andare a comprimere tali terminazioni nervose, causando una sciatalgia (si parla di sindrome del piriforme).
Mal di schiena
Quando si parla di mal di schiena bisogna differenziare il tipo di dolore. Il dolore può essere acuto, oppure cronico:
Acuto, quando compare all’improvviso e ha una durata limitata perché cessa con la guarigione della causa che lo ha provocato, oppure perché si trasforma in cronico. Qualunque sia l’origine, il dolore acuto produce reazioni di difesa e di protezione che comprendono l’alterazione dell’umore (depressione, ansia, paura), modifiche del sistema nervoso autonomo (alterazione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, nausea, vomito, sudorazione), atteggiamenti di modifica della postura (le classiche posture antalgiche).
Cronico, che tende ad essere più insistente del dolore acuto: il sintomo, infatti, dura più del previsto e compromette la vita sociale e la personalità del paziente. In passato era definito cronico quando durava almeno sei mesi, oggigiorno il limite temporale è stato superato e oggi il dolore è cronico se dura più del previsto. È uno stato che tende ad essere più insistente del dolore acuto e compromette la vita sociale e la personalità del paziente. Le persone affette da dolore cronico soffrono anche di disturbi del sonno, depressione, affaticamento, e vedono ridotte le loro facoltà intellettive.
Perché l’osteopatia, filosofia nata negli Stati Uniti nei primi anni del 1900 dal medico Andrew Taylori Still (1828-1917), può essere la soluzione migliore per il trattamento della “low back pain”?
Innanzitutto è una terapia che non si serve dei farmaci, ma solo di manovre e tecniche manuali, quindi è accessibile a tutti, anche ai pazienti che per svariati motivi non possono assumere farmaci (bambini, donne in gravidanza, persone anziane); inoltre l’approccio dell’osteopata di fronte ad un dolore lombare è sulla globalità del paziente, tenendo conto della sua storia anamnestica, della sua postura, dei suoi traumi del passato.
Tale tipo di approccio può essere utilizzato sia in fase acuta che in fase cronica. Un bravo osteopata ha un bagaglio di conoscenze tale da poter utilizzare diversi approcci sul paziente con dolore alla colonna:
strutturale, che si caratterizza di manipolazioni su tutto quello che è il “contenitore”, cioè l’insieme di ossa, articolazioni, muscoli, legamenti collegati alla zona lombare sofferente;
viscerale, che tratta il “contenuto”, cioè i visceri che sono collegati al processo infiammatorio in atto;
cranio-sacrale, che ruota attorno alla fluttuazione ritmica del liquido cefalorachidiano. Questo liquor è un fluido trasparente che permea l’intero sistema nervoso centrale mantenendolo in sospensione, proteggendolo, nutrendolo e contribuendo alla regolazione della pressione intracranica. Mediante leggere manipolazioni, quasi impercettibili per il paziente, l’operatore è in grado di intervenire sull’intero organismo, tramite i collegamenti con il sistema cranio sacrale, ridonando equilibrio al sistema.
Il trattamento osteopatico agisce in profondità, con l’obiettivo di ridonare equilibrio e comfort al sistema e stimolare il processo di autoguarigione per portare ad un miglior grado di salute.
Per questo motivo, in molti casi, un intervento adeguato può risolvere il mal di schiena anche trattando zone del corpo lontane da quella dove si sente dolore. L’obiettivo è ridonare mobilità a tutte quelle strutture bloccate, in modo da migliorare la circolazione, il ricambio di ossigeno e il drenaggio delle tossine.
Uno dei principi dell’Osteopatia è il concetto che “Il corpo è un tutto”, un’unità anatomica e funzionale nella quale tutte le parti sono collegate tra loro dal tessuto connettivo. Tale tessuto connettivo deriva dal foglietto embriologico del mesoderma. Mettendo le mani sul corpo del paziente si entra in contatto con il tutto e anche con la parte più profonda) e si è in grado di riequilibrale il sistema.
Altro concetto fondamentale è che “il corpo ha la capacità di difendersi e di autoguarirsi”: l’organismo ha la capacità di mantenere e recuperare lo stato di salute, ovvero è in grado di combattere e trovare i rimedi contro la malattia. Per malattia si intende la perdita della capacità di adattamento del sistema (perdita dell’omeostasi). Il trattamento osteopatico non fa altro che dare delle informazioni al sistema per riacquisire e accelerare il processo di autoguarigione. L’osteopatia non lavora sulla malattia ma sulla salute.
Still diceva che “la vita è movimento”, la disfunzione osteopatica non è altro che una perdita di mobilità di una struttura, che porta alla perdita di autoregolazione con successiva perdita della funzione. L’osteopatia permette di leggere il corpo del paziente e normalizzare la sua perdita di mobilità.
In termini pratici, il trattamento osteopatico comincia con l’anamnesi del paziente, una valutazione fatta di test clinici e test osteopatici per ricercare le zone del corpo dove vi è perdita di mobilità ed equilibrio e successivo trattamento delle zone in lesione, che possono anche non avere relazione con la zona del dolore.
Compito dell’osteopata è anche quello di suggerire come migliorare lo stile di vita, la postura e la dieta, insegnare alcuni esercizi utili ed eventualmente indirizzare il paziente ad altri esperti.
L’obiettivo fondamentale del trattamento osteopatico è di restituire all’organismo il ritmo e la mobilità, che garantiscono il buon funzionamento degli organi e degli apparati. La scelta del tipo di trattamento e del numero di sedute dipende dal paziente e dalla valutazione iniziale effettuata. In ogni caso la frequenza dei trattamenti non è troppo ravvicinata, proprio per consentire al sistema di rispondere al trattamento e ricercare la propria omeostasi.
Il ruolo primario dei carboidrati detti anche glucidi o idrati di carbonio è quello di fornire energia all’organismo. Che i carboidrati (CHO) abbiano un effetto positivo sulla performance è noto ormai da tempo.
I primi studi riguardanti l’importanza dei carboidrati risalgono agli anni 70, quando uno studio pionieristico dimostrò che una dieta iperglucidica, rispetto ad una ipoglucidica o normoglucidica, permette di immagazzinare più glicogeno a livello muscolare ed epatico, ritardando così l’insorgenza della fatica e aumentando dunque la capacità di resistenza allo sforzo, sia nell’esercizio di endurance che di potenza.
Al contrario, ridotte concentrazioni di glicogeno portano ad un affaticamento precoce, dunque ad una riduzione dell’intensità dello sforzo e della performance.
Oggi siamo tutti alla ricerca della giusta quantità di carboidrati da assumere quotidianamente, spaventati anche dalla loro capacità di essere convertiti in depositi di grasso. Sicuramente, quando si parla di un atleta, ragionare in termini di percentuale di carboidrati rispetto all’introito calorico giornaliero non è propriamente corretto: si rischia infatti di fornire una quantità insufficiente o eccessiva di carboidrati nel momento in cui l’introito calorico è molto elevato o molto ridotto.
Ad esempio, se un atleta che consuma 4000-5000 kcal al giorno dovesse trarre il 60-70% dell’energia dai carboidrati – come dichiarato dai primi ricercatori – andrebbe ad ingerire così tanti carboidrati da superare la capacità di accumulo del glicogeno e favorire la loro conversione in grasso di deposito. Viceversa, un atleta da 2000 kcal al giorno ne ingerirebbe troppo pochi per mantenere intatte le riserve di glicogeno muscolare.
Ecco perché oggi i ricercatori suggeriscono di calcolare il fabbisogno personale di carboidrati non sulla base dell’introito calorico (che sia ottimale o meno), bensì sulla base del peso corporeo e del volume di allenamento, poiché la capacità di accumulo di glicogeno è più o meno proporzionale alla massa muscolare e al peso corporeo. Tenendo in considerazione che maggiore è il volume di allenamento, più elevata ancora sarà la quantità di carboidrati necessaria per alimentare il muscolo.
In tabella sono riportate la quantità giornaliere di CHO (per Kg di peso corporeo) necessarie in base al livello di attività svolto.
Tabella 1. Fonte: Burke, 2007
Livello di attività
Assunzione raccomandata di CHO
Allenamento molto leggero(bassa intensità)
3-5gr/Kg di peso corporeo al giorno
Allenamento ad intensità moderata (circa 1 ora al giorno)
5-7gr/Kg di peso corporeo al giorno
Allenamento ad intensità medio alta (1-3 ore al giorno)
7-12gr/Kg di peso corporeo al giorno
Allenamento ad intensità molto elevata (≥4 ore al giorno)
10-12gr/Kg di peso corporeo al giorno
Quando si parla di carboidrati, però, bisogna sempre considerarne la qualità e stabilire il corretto timing di assunzione: va quindi valutato l’indice glicemico e il carico glicemico dell’alimento che si sceglie, nonché il momento della giornata in cui consumarlo.
Nell’atleta la qualità, la quantità e il timing di ciò che viene ingerito prima e durante l’allenamento ha effetti diretti sulla forza e sulla resistenza muscolare, quindi sulla performance: più ci si avvicina alla partenza, che sia gara o allenamento, meno si dovrebbe mangiare, altrimenti non si ha il tempo necessario per permettere lo svuotamento gastrico – cosa molto importante in tutti quegli sport dove vi è uno scuotimento gastrico importante. Allo stesso tempo, far passare troppo tempo tra il pasto e l’allenamento comporterebbe un eccessivo abbassamento della glicemia, col rischio di compromettere poi la performance. Ecco che la distribuzione dei carboidrati nel pre/post allenamento risulta fondamentale per prevenire un calo della prestazione.
La maggior parte degli studi suggerisce 2,5 gr di CHO (meglio a basso Indice Glicemico) per Kg di peso corporeo circa 3 ore prima dell’allenamento, sebbene molti atleti siano in grado di consumarlo anche 2 ore prima senza avere effetti negativi e molti altri necessitino invece di pasti liquidi o semi-liquidi per agevolare il transito.
A seguire un spuntino pre-allenamento con CHO ad alto IG (es. frutta fresca, frutta essiccata, barretta energetica, pane tostato e marmellata), per poi integrare con carboidrati durante l’esercizio fisico in allenamenti di durata superiore a 60 minuti: questi ultimi devono essere facili da digerire e assorbire, sia solidi che liquidi, sia industriali che preparati in casa (banane mature, gel energetici, succhi di frutta diluiti, acqua e zucchero, bevande isotoniche o a base di polimeri di glucosio, barrette energetiche, frutta essiccata ecc…), meglio se assunti insieme ad acqua. La raccomandazione è di assumere tra i 30 e i 60 gr di CHO semplici all’ora, in riferimento alla quantità massima di glucosio assorbibile a livello intestinale. Tuttavia, studi dimostrano che assumere una miscela di diversi zuccheri semplici (glucosio+fruttosio o maltodestrine + fruttosio) permetterebbe di assumere molti più carboidrati per ora, cosa consigliabile in allenamenti di durata superiore alle 3 ore. Ovviamente l’utilizzo di queste miscele potrà ritardare l’insorgenza della fatica ma non permettere di proseguire con l’allenamento ad oltranza: altri fattori, diversi dai carboidrati disponibili o meno, porteranno comunque al cedimento.
Tabella 2. Riassunto delle raccomandazioni per l’assunzione di CHO durante l’allenamento. Fonte: Guida completa all’alimentazione sportiva, A. Bean 2013
Durata allenamento
Quantità raccomandata di CHO
Tipo di CHO
< 45 min
Nessuna
Nessuno
45-75 min
Nessuna o minima
Qualsiasi(basso IG)
1-2 ore
Fino a 30gr/h
Qualsiasi(basso IG)
2-3 ore
Fino a 60gr/h
Glucosio, maltodestrine
3 ore
Fino a 90gr/h
Miscela di carboidrati( Glu+Fru oppure Maltodestrine+Fru 2:1)
I carboidrati giocano un ruolo fondamentale anche nel recupero muscolare post – esercizio, dove è importante ripristinare le riserve di glicogeno (soprattutto in chi si allena tutti i giorni): più le riserve sono esaurite (e questo dipende dalla durata e dall’intensità dell’esercizio), più tempo ci vorrà per ripristinarle. Per questo è bene sfruttare le due ore successive all’allenamento, in cui le cellule sono più permeabili al glucosio al fine di velocizzare la riparazione del muscolo (sia dal punto di vista proteico, sia dal punto di vista glucidico), la quale avviene al 150% della velocità normale; nelle successive 4 ore rallenta ma rimane comunque superiore rispetto al ritmo normale.
La maggior parte dei ricercatori consiglia di consumare 1gr per kg di peso corporeo nelle prime 2 ore successive all’allenamento(CHO con IG medio-alto), ma per un ripristino efficace è bene continuare anche nelle ore successive con 50gr di CHO ogni 2 ore fino al pasto successivo (in questo caso anche a IG medio-basso). Nella fase di recupero è bene associare al carboidrato anche una fonte proteica (fino a un massimo di 30gr): si è visto che miscele di carboidrati e proteine stimolano un maggior rilascio di insulina, ormone anabolizzante che accelera l’assorbimento di glucosio e amminoacidi da parte delle cellule muscolari, promuovendo la sintesi di glicogeno e la sintesi proteica e muscolare.
Esempi di spuntini post allenamento possono essere: yogurt + cereali + frutta fresca/essiccata ; oppure pane tostato con affettato magro; oppure un piatto di pasta e legumi (o pasta e carne/pesce).
Concludendo possiamo dire che:
Una dieta iperglucidica permette di immagazzinare più glicogeno a livello muscolare ed epatico, ritardando così l’insorgenza della fatica e aumentando dunque la capacità di resistenza alo sforzo, sia nell’esercizio di endurance che di potenza.
Per chi pratica regolarmente attività fisica si raccomanda un’assunzione di carboidrati pari a 5-7gr per kg di peso; durante i periodi di allenamento intenso invece è consigliabile salire a 7-10gr per kg.
Alimenti a basso IG andrebbero consumati 2-4ore prima dell’allenamento (2,5gr di carboidrati per kg di peso), mentre alimenti/bevande ad alto IG sono consigliati subito prima e durante l’esercizio fisico, stando però attenti al carico glicemico di ogni porzione/dose per evitare crisi ipoglicemiche temporanee (30-60gr di carboidrati ogni ora).
Il recupero muscolare post- esercizio è più veloce nelle 2 ore successive alla fine dell’allenamento: sfruttando questa finestra anabolica è possibile velocizzare la sintesi proteica e di glicogeno a livello muscolare, ma è necessario assumere una miscela di CHO con IG medio alto(1gr per kg di peso corporeo) e proteine (20-30gr).
Per capire con quali alimenti nella nostra dieta possiamo giocare senza compromettere la salute, in qualità di Biologa Nutrizionista a Milano, ribadirò alcuni concetti.
Siamo fatti di carboidrati (zuccheri), proteine, lipidi (grassi), sali minerali e acqua. Il grasso corporeo deriva direttamente dai lipidi degli alimenti o dagli zuccheri inutilizzati e trasformati in materiale di deposito.
Senza intaccare proteine e sali minerali, possiamo costringere il nostro corpo ad utilizzare i depositi diminuendo semplicemente gli alimenti della colonna F. Mangiare 1 grammo per peso corporeo ideale significa già evitare abbondantemente accumuli inutili.
Una persona di 100 kg che dovrebbe essere in realtà 70 kg può mangiare 70 gr di carboidrati al giorno, ma normalmente arriviamo tranquillamente anche a 200. Ecco perché già in questo modo una persona seguendo la tabella C perde peso e non ha nemmeno fame non soffrendo di sbalzi glicemici qualora nella dieta scegliesse sempre alimenti a basso indice glicemico.
La frutta e la verdura non vanno mai tolte dalla nostra quotidianità, come anche le proteine animali o vegetali che siano.
Possiamo invece divertirci con i carboidrati! Anche l’olio non è opportuno limitare purché sia extravergine di oliva. È antitumorale, evita ristagni intestinali, aiuta la peristalsi e contiene molecole utili al nostro corpo quali ad esempio gli antiradicali.
Come ogni comportamento, anche il comportamento alimentare viene influenzato da fattori cognitivi ed emotivi specifici di ogni individuo, della fase di vita che questi sta attraversando e delle esperienze che ha già vissuto.
Rappresentazioni cognitive disfunzionali, rigidità o disregolazioni comportamentali, esperienze traumatiche singole o ripetute nel tempo possono infatti ostacolare il desiderio di seguire un regime alimentare sano e il raggiungimento di un peso corporeo soddisfacente, nonché di un buon senso di benessere.
La difficoltà nell’acquisizione e nel mantenimento di un’alimentazione sana ed equilibrata non di rado si fonda sul bisogno – spesso inconsapevole – di attribuire al cibo funzioni prettamente psichiche e anche molto diversificate fra persona e persona, che necessitano di essere svelate, comprese e accettate, infine modificate.
Con il primo colloquio, la psicologa effettua insieme al paziente una prima valutazione del problema: vengono raccolte le informazioni necessarie per comprendere l’intervento più utile per la persona che ha richiesto la visita. In seguito, il paziente avrà la possibilità di effettuare un percorso di sostegno continuativo che potrà accompagnarlo durante l’intero percorso alimentare e che verrà focalizzato sulla valorizzazione e implementazione delle risorse del paziente.
In alcuni casi, è raccomandabile un lavoro di psicoterapia, più di profondità, in cui lo psicologo aiuta il paziente a comprendere i meccanismi profondi su cui si fondano abitudini alimentari disfunzionali, sia a indurre cambiamenti significativi nelle dinamiche di funzionamento globale della persona.
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